venerdì 21 giugno 2013

C'ho messo trent'anni. Magari se non proprio trenta almeno una quindicina, anche venti, di anni. Alla fine inizio a capire. La portata di quello che inizio a capire, no, non mi spaventa più. Sono stata prigioniera della paura per tante stagioni, mi sembrava di detestarla, invece ora so che l'amavo più di me stessa. Ho capito che le cose più grandi della mia vita le ho fatte solo quando avevo paura. Ho capito che era lei, solo lei il mio motore. La voglia di vincerla, sentire nella sua voce un richiamo anziché un ammonimento. Avevo paura... significava che dovevo, io dovevo agire. Senza paura di perdersi non c'è coraggio nel trovare. Se non hai paura, non ne vale la pena. Me lo sono ripetuto per tutti questi anni. Ah, ma io non lo sapevo, perché mi sentivo senza riuscire ad ascoltarmi. Quante volte è accaduto... Ora che so che senza di lei non potrei mai concludere un bel niente, ora che ho ascoltato alla fine, e che ho capito, dopo tanti anni non la sento più. Non la sento nemmeno dormire. Me ne vado in giro per il mondo come se nulla potrà sorprendermi ormai, e so di sbagliare. Molte cose ancora mi sorprenderanno. Ho sempre tante persone che amo e che mi amano, e questo cos'è, dopo tutto, se non un gran motivo per sorprendersi e per aver paura? Non ho paura del nuovo che verrà. Si potrebbe pensare "Come puoi averne, se il nuovo ancora non lo conosci?". E potrei rispondere che neanche prima lo conoscevo, ma lo temevo già. Temevo, e tremavo, e fremevo costantemente nell'attesa, all'idea di trovarlo. Non fremo più. Non tremo più. Non temo. No, non è sfrontatezza, né coraggio. E' solo essenza che segue il suo divenire. Mai, mai avrei creduto di divenire ciò che sento ora di diventare, istante dopo istante. Lo approvo, certo che lo approvo. Come potrei fare diversamente? E' che non so se mi piace o no. Amavo la me così matta da seguire il cuore e mollare tutto. Perché lui se ne restava in silenzio per tanti anni, ma quando infine parlava, la voce della sua paura era legge, era il mio onore, anche a costo della dignità stessa... Che scema, che pazza. Non mi sembra di dormire, e forse nemmeno d'esser morta. Mi sembra solo qualcosa che non è mai somigliato a null'altro. Si cambia e si diviene un pò tutti nella vita. E' solo che io ora non m'assomiglio più. Mi sono assomigliata per tutti questi anni, nei cambiamenti e nelle stagioni ero nuova, ma costruita sul vecchio. Non m'assomiglio più... Ho visto cosa sa fare la paura, quando diventa troppo grande, quando il cuore si sfianca e ed esplode infine, a forza di starle dietro, e la mente non sa reggere più il passo. L'ho visto... ora sì. Non si descrive né si scrive, a malapena si riesce a sostenersi nel guardarlo. Qualcuno nel mondo oltre a me di certo lo saprà. Ecco che non m'assomiglio più. Quando scrivo, l'istante stesso in cui la parola diventa reale e le lettere appaiono, quella stessa parola vorrei che fosse ancora diversa. Il panta rei è dentro di me in un modo in cui mai s'era manifestato, lo sento trascinare con prepotenza tutto quello che trova nel letto del suo scorrere, ciottoli e macigni, fiori caduti dalle rive ombrose, perfino il riflesso del cielo si porta via. E i sogni di quando ero bambina non ci sono più. Niente, mai nulla nella mia vita sembrava averli mossi di un solo millimetro da lì. Le facce andavano e venivano, il cuore moriva e tornava a vivere, ma i sogni non cambiavano mai, ed io in fondo lo sentivo sempre. Vivevano nel presente , a volte silenziosi dentro un angolo di cuore, ma con una nitida prepotenza d'essere. Ora sono ricordi, e non sogni. Avevo cinque anni forse, quando rubavo a mamma uno dei suoi anelli e me lo infilavo al dito girandolo al rovescio, perché sembrasse una fede, anche se era dannatamente largo. Mi rivedo, seduta sul letto mi cullavo la mia bambola, la prima figlia del mio cuore di bambina. La cullavo e la guardavo, con quelle sue ciglia folte, era così bella. E mentre le accarezzavo la testolina di plastica calva, osservavo quell'anello al dito. A cinque anni per me, nella mia fantasia, quell'anello era già il simbolo dell'attesa della sera, in cui rientra a casa il papà, un papà come il mio, perché di meno non poteva proprio andar bene. La cullavo e poi la stringevo forte forte. La riempivo di baci, e pensavo e le raccontavo, come sarebbe stato felice lui, e felici noi, quando la sera sarebbe infine arrivata. Ho giocato con le bambole fino a ieri. Ostinatamente, nel mio essere per quel gioco ormai forse troppo grande. Giocavo con le bambole, e giocavo con la mia vita. Giocavo lo stesso gioco di quando avevo cinque anni. Ma a cinque anni la vita era solo fantasia. Poi è diventata reale, e ha fatto male. Perché crescendo avevo capito subito che sapevo fare ormai ancora tanti giochi, tranne quello. Quello non era più un gioco. Non era più un sogno. Ho scoperto che farlo essere il sogno sapeva fare male, e ho scoperto che davvero, alla fine, sapeva anche uccidere. Ha fatto così tanto male, che alla fine il gioco non m'è piaciuto più. E poi basta scrivere, tanto è inutile, non ci riesco. Non posso dire di come non riesco a dire... Certe lacrime non si sanno scrivere. Forse è solo perché nemmeno si dovrebbe. L'immenso non si racconta, al massimo si vive. Potrei parlare di stagioni, e di ere glaciali che giungono infine, e che forse durano millenni. Ma non sarebbe mai abbastanza. Sono io, e io è tanto, così tanto che spinge forte, spinge per non voler essere più. Lo sento convinto, convinto come mai prima d'ora. Vedo una bambina con la sua bambola riflessa in un vetro rotto. E nel vetro ancora intatto dello specchio vedo invece solo una donna. E non mi fa paura. Anche se non l'avevo mai vista prima d'ora, anche se forse l'ho temuta tanto, perché l'ho immaginata per un tempo quasi infinito, era l'unica cosa del sogno che sapevo non sarebbe mai stata come potevo immaginarla, ma solo qualcosa di incredibilmente diverso, e tanto, tanto più grande perfino della fantasia di una bambina. E le cose di cui finalmente m'è chiaro che sia fatta questa donna, non potrò mai dirle. Potrò raccontare di come giocava e di come impazziva, di come accadde, e di come divenne. Di come era, ed è, e sarà. Di come, ma non cosa. Cosa è lei non può racchiudersi in metafore o avverbi, né note né pennelli credo potrebbero mai riuscire a dirne. Io dico solo di come vedo ancora, nel riflesso del vetro infranto del suo sguardo, l'immagine della bambina. E di come la bambina ora sia solo la donna. Le sue bambole ordinate, su di un letto ormai lontano da lei. Che si potrebbe quasi pensare che è solo perché la donna non ci crede più. La realtà invece è solo che la donna ha sogni diversi. A quelli della bambina, non dà ascolto ormai. E la paura della bambina, non le appartiene più. Era una veste troppo pesante per lei. E non è che non crede nei sogni della bambina, ma è forse proprio nella bambina, che non crede più. La bambina sapeva aver paura, alla donna invece della paura non importa niente. Non la desidera. Ora, forse, la detesta. Ora non la sfida, dice che non c'è, ma forse la ignora soltanto. E di come il sogno di una bambina si possa far trascinare lontano, dallo scorrere dell'esistenza, mentre una donna ci si specchia dentro, no, non sarò mai in grado di dire. Non tremo più, per questo a volte utlimamente ho pensato d'esser morta. Non tremo, non m'assomiglio, e al momento non mi so nemmeno raccontare. Ho detto tanto, ma non ho detto niente. Ora come ora forse, non mi resta che scorrere. Scorrere, e divenire.

1 commento:

  1. Non so di cosa hai avuto paura in tutti questi anni, ma sicuramente vivere nella paura e' sbagliato a prescindere anche se capisco non e' facile se uno la vive nel quotidiano... Fai bene a scorrere e divenire come dici te.. Altro non posso dirti dato che non conosco la tua storia e rischio di dire qualcosa di stupido o inappropriato...

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